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JARHEAD
(JARHEAD)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 21 febbraio 2006
 
di Sam Mendes, con Jake Gyllenhaal, Peter Sarsgaard, Chris Cooper, Jamie Foxx (Stati Uniti, 2005)
 
Sam Mendes non è un imbratta schermi qualsiasi. Tanto da indurre il vostro cronista a concedere a suo tempo le tre baldanzose stellette ai suoi primi film. Ad AMERICAN BEAUTY del 1999, attenta osservazione della realtà sociale e psicologica in una sceneggiatura perfettamente costruita, dialoghi originali, attori ispirati. Ed a quel passaggio generazionale della conoscenza, della trasmissione del mestiere, del mistero della rassomiglianza, nel rapporto fra padre e figlio di un insolito thriller decadente, ERA MIO PADRE - ROAD TO PERDITION, del 2002 , melodramma sontuosamente fotografato che giocava sulle proprie contraddizioni, romantico e stilizzato, depresso e animato da un'energia epica che ricordava quella di Sergio Leone.

Lo smoderato citazionismo maschera appena, l'avrete compreso, la delusione nei confronti dell'altro rapporto genitore–nazione e figlio–cittadino che caratterizza JARHEAD (da testa a barattolo; per farla breve, dal testa di c… che sottolinea la testarda programmazione ad uccidere inculcata ai marines...): cronaca, che si vorrebbe tutta traslata dal realismo al distacco metafisico della prima Guerra del Golfo in Kuwait, tratta dal romanzo autobiografico di Anthony Swofford. Incarnata dal Jack Gyllenhall tipico eroe di queste faccende: il giovane americano antibellicista ma comunque ligio alla difesa dei valori nazionali trascinato suo malgrado in una spirale di assurdità e violenza. E' ovviamente assurdo porgere un occhio scettico o addirittura derisorio alla credibilità realistica di JARHEAD: a quella pattuglia di zombi smarriti nel deserto sotto la pioggia di petrolio dei pozzi incendiati senza nemmeno uno straccio di GPS acquistato al supermercato che li tenga in contato con i superman tecnologici dell'invincibile armada attorno. Come al déjà vu degli addestramenti con il sergente becero, degli scherzi iniziatori alle matricole, della miseria del sesso succedaneo o delle dissertazioni sentimentali (o, peggio, parafilosofiche) fra commilitoni.

Dove la supponenza figurativa di Mendes sbolle nella grandiloquenza sterile è in invece quando pretende inventare un Deserto dei Tartari vs. Saddam Hussein: nell'attesa alienante di un nemico invisibile e assente che si fa sempre minaccia sempre più interiore, nel tentativo di passaggio ad una astrazione, ben più significativa di una realtà alla quale i telegiornali ci hanno ormai vaccinato. Nell' impotenza di una sceneggiatura stirata fino alla noia nella noia; di una regia che stenta maledettamente a lievitare; di una colonna sonora banalmente referenziale. Certo, con qualche eccezione: la bella, finalmente inquietante sequenza delle impronte calcinate che misteriosamente si imprimono nella sabbia quando il protagonista si imbatte nei cadaveri carbonizzati nel deserto. Ma tutta l'operazione del regista si sfianca sull'uso di due poli espressivi sempre più risaputi: il rinvio alla memoria mitica tratta dai film emblematici, FULL METAL JACK, IL CACCIATORE o APACALYPSE NOW (la sola che funziona: coi marines che applaudono scatenati alle straordinarie immagini di Coppola che mitragliano dall'alto le donne ed i bambini del villaggio fra le palme); o la faticosa evasione metafisica di un cavallo intriso di petrolio che nitrisce sullo sfondo dell'orizzonte infuocato.

Lungo e telefonato. Con il rischio di ogni incertezza espressiva, quello di rendere parimenti ambigua l'ideologia. Tanto da chiedersi: ma la frustrazione dei marines, ai quali è vietata la liberazione di poter far esplodere il cranio del nemico, non sarà poi vista con comprensione?


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